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Chi soccorre: La storia di Mediterranea
La nave di Mediterranea – l’unica ong che soccorre i migranti nel Mar Mediterraneo sventolando la bandiera italiana – si è staccata dall’aula di un’università tedesca. «E’ andata proprio così – afferma Luca Casarini, fondatore di Mediterranea, conosciuto per essere stato tra gli organizzatori delle piazze “no global” al tragico G8 di Genova nel 2001 – in qualche modo la nostra storia inizia in Germania, nel senso che dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa – in cui morirono, in una sola notte, 368 migranti – la società civile tedesca, incontrandosi specialmente con gli ambienti universitari, decise di aprire una discussione per reagire in modo pratico al dramma di quei migranti, ponendo le basi di quella che oggi è la civil fleet.» Una flotta di navi civili che concorrono con quelle militari al soccorso di migranti in mare, composta attualmente da 16 ong (tra cui Sea Watch, Medici Senza Frontiere, Emergency e il centralino Alarm Phone) che si coordinano tra loro attraverso una piattaforma chiamata CivilMRCC.
«Qualcuno di loro andò in un cantiere navale di Amburgo, qualcun altro a Bremerhaven e con i soldi ottenuti dal crowdfunding – una raccolta di denaro fatta tramite piattaforme digitali – ci comprò una nave e la portò nel Mediterraneo», dove – dopo lo smantellamento, nel 2014, della missione militare salva-migranti “Mare Nostrum, voluta dall’allora governo italiano (presieduto da Enrico Letta) – era rimasto un vuoto. «Mare Nostrum aveva soccorso in mare più di 130.000 persone, un numero importante, ma nonostante questo l’Unione Europea decise di non farsene carico, così la missione venne smantellata. Fu allora che io e altri amici tra cui Beppe Caccia – altro armatore di Mediterranea – pensammo che fosse il caso di avere anche in Italia una nave di soccorso civile – cioè rappresentativa non di uno Stato ma di una fetta di società – e prendemmo il primo volo per Berlino.»
In una stanzetta fredda della capitale tedesca, nell’estate del 2018, li aspetta Harald Höppner , il fondatore di Sea Watch, ong tedesca che sostiene da subito, anche economicamente, l’iniziativa di attivare una nave italiana di soccorso in mare. La missione dei fondatori di Mediterranea a Berlino è sintetizzabile in una frase che Luca non dimentica: «per fare la nave serve un milione di euro». Ma soprattutto serve farlo di nascosto. Niente telefonate, niente annunci pubblici, niente post su Facebook. Si trattava di bussare concretamente - «col toc toc» - alla porta di associazioni italiane che credessero nel progetto. «Sapevamo infatti, io in primis – avendo organizzato le manifestazioni (pacifiche) di protesta al G8 di Genova nel 2001 – di essere monitorati dai servizi segreti italiani: armare una nave per soccorrere migranti nel Mediterraneo accendeva una spia di pericolo per le autorità italiane.»
Tanto più dopo l’arrivo al governo, nel giugno 2018, del leader della Lega Matteo Salvini – autore dei “decreti-sicurezza” che avevano generato il dibattito sui “porti chiusi” – e dell’allora capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio, che appena un anno prima su Facebook, rilanciando un articolo, aveva definito le navi delle ong come “taxi del Mediterraneo”. Nell’articolo, ancora disponibile online (contrariamente al post dell’ex ministro, che ha chiuso il suo profilo) ci si chiede chi finanzia le missioni delle ong nel Mediterraneo e che legami hanno queste organizzazioni umanitarie in Libia.
Si tratta di dubbi che vennero sollevati da un’inchiesta aperta proprio nel 2017 dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che – accusando la ong spagnola Proactiva Open Arms di essere un’associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina – sosteneva ci fosse una connessione tra le missioni delle ong e le organizzazioni criminali. Connessione che fino a oggi non è mai stata provata nelle aule di tribunali italiani, tanto che nel 2019 proprio il procuratore Zuccaro ha chiesto ai giudici di Catania di chiudere l’indagine avviata da lui stesso due anni prima. «Un’indagine che non ha trovato niente di criminogeno sul conto di Proactiva Open Arms, ma che ha contribuito – «quello sì», puntualizza Luca Casarini – a cambiare il modo di vedere le ong in Italia.»
Ma torniamo al 2018, i fondatori di Mediterranea andando segretamente su e giù per l’Italia sono riusciti a raccogliere una somma di denaro che ritengono soddisfacente per preparare una nave. Ora, però, serve la nave. «La trovammo in un cantiere navale di Augusta, in Sicilia, si trattava di un rimorchiatore d’altura del 1972, di nome Mare Jonio» ricorda Luca, che ha ancora i capelli lunghi come nelle foto del G8, solo che ora li porta avvolti in un codino grigio. Perché Mare Jonio inizi a navigare nel Mediterraneo Centrale servono ancora un comandante, un direttore di macchina, degli ufficiali. «Un amico del sindacato mondiale dei marittimi ci mise a disposizione un ufficio a Pozzallo, per selezionare i marinai mi presentai come ispettore di bordo di una società chiamata Idra Social Shipping.»
Dal casting di Luca viene fuori un mix che ancora oggi contraddistingue l’equipaggio di Mediterranea: attivisti che provengono da tutta Europa e marinai siciliani che conoscono a memoria quel mare che si apre davanti alla Mare Jonio. «La notte prima di partire ero molto preoccupato – confessa Luca – non sapevo se quell’affiatamento inedito tra attivisti e marinai sarebbe scattato. Allora chiesi un consiglio a Mario, operaio specializzato del cantiere di Augusta. «Cosa posso fare per essere apprezzato da loro quando saremo in mare?» E Mario, senza dubbio, gli rispose: «Cucinare!» La prima missione di Mare Jonio partì la notte tra il 3 e il 4 ottobre del 2018 dal porto di Augusta, con 11 persone bordo e Luca Casarini ai fornelli.
Fabio Gianfrancesco quella notte non c'era, ma è stato il rescue coordinator della quattordicesima missione in mare di Mediterranea, partita il 13 ottobre scorso dal porto di Trapani, dopo quasi un anno di stop in cantiere.
«Politicamente, rispetto alla missione precedente, c’è stato un cambio di governo – il governo Meloni è subentrato al governo Draghi il 22 ottobre 2022 – il che ha inciso direttamente sulle missioni delle ong, dopo l’approvazione del decreto-legge Piantedosi» – provvedimento che prende il nome dall’attuale ministro dell’interno, Matteo Piantedosi – «Si tratta di un decreto volto a ridurre al minimo il tempo trascorso in mare dalle navi di soccorso, con cui il governo ha introdotto sei criteri, rispettati i quali può essere considerato “inoffensivo” il passaggio della nave di una ong in acque territoriali italiane.» Il decreto ha aperto un dibattito politico a cui anche Mediterranea ha preso parte, evidenziando i punti critici e alcuni effetti giudicati da Fabio Gianfrancesco “paradossali”.
«Per esempio, dopo aver ricevuto l’assegnazione di un porto di sbarco, secondo il d.l. Piantedosi, la nave deve dirigersi in porto rapidamente e senza cambi di rotta – dunque senza intervenire, anche qualora dovesse incrociare un’imbarcazione in difficoltà – ma questo contrasta apertamente con il diritto internazionale, in particolare con la Convenzione di Amburgo, che ti obbliga, proprio in casi come quello, a prestare soccorso». Per cui se la nave obbedisce alla legge italiana infrange il diritto internazionale, viceversa – se obbedisce all’obbligo di soccorso previsto dalla Convenzione di Amburgo e da altre convenzioni internazionali – si espone alle sanzioni del d.l. Piantedosi. Sanzioni che vanno dal fermo per 20 giorni, più una multa di 10 mila euro, fino alla confisca della nave.
La quattordicesima missione in Mare di Mediterranea ha soccorso 116 migranti tra le zone Sar (aree di ricerca e soccorso) libiche e maltesi. «Le zone SAR sono delle “regioni del mare” i cui confini vengono autodichiarati dagli stati e ratificati dall’IMO (International Maritime Organization) delle Nazioni Unite – spiega Fabio, che ha coordinato l’equipaggio con a bordo 5 attivisti, di cui 3 soccorritori – nel caso del Mediterraneo Centrale si tratta di Italia, Libia e Malta, dal momento che la Tunisia non ne ha ancora comunicata una.»
Dopo aver dichiarato la sua zona Sar uno stato assume il “governo” di queste “regioni marine”, in cui ha l’obbligo di coordinare le attività di soccorso da chiunque vengano effettuate, sia da navi civili come quelle delle ong, che da navi mercantili, che da navi militari.
Queste sono le regole. Ma la realtà, soprattutto in mare, è più complicata. Proviamo a semplificarla con un esempio pratico, chiedendo a Fabio di raccontarci il suo ultimo soccorso, avvenuto il 14 ottobre scorso. «Lasciamo il porto di Trapani e ci dirigiamo in un’area di ricerca e soccorso. E’ quasi buio, Seabird – un aereo della civil fleet che sorvola il Mediterraneo – ci segnala un’imbarcazione in ferro carica di persone che stanno per capovolgersi a sud-est di Lampedusa, in zona Sar maltese». A quel punto dalla plancia di comando di Mare Jonio parte una segnalazione «al centro di coordinamento marittimo italiano – che ha sede a Roma – e a quello maltese, che – come generalmente accade – non risponde.»
La nave si dirige verso il punto segnalato sulle mappe, l’equipaggio si prepara: a bordo è tutto un rumore di cerniere che si chiudono nel gracchiare intermittente delle radioline. Fabio rimane con gli occhi attaccati al binocolo: individua l’imbarcazione, conta circa 50 persone. Si assicura che almeno 50 giubbotti di salvataggio siano pronti.
Sono pronti. Non è arrivato l’ok dalle autorità, ma l’equipaggio decide ugualmente di intervenire, valutando concreto il rischio che l’imbarcazione possa rovesciarsi da un momento all’altro. Il comandante spegne il motore. «Durante il soccorso la nave non si avvicina mai al barcone», per evitare quello che i soccorritori chiamano “effetto magnete”, «cioè che i migranti si tuffino in mare per raggiungerla a nuoto, con il rischio di affogare.»
Dai fianchi della Mare Jonio scendono allora due scialuppe arancioni di gomma, chiamate rhib, in inglese Rigid Hull Inflatable Boat (battello gonfiabile a chiglia rigida), con a bordo tre soccorritori con gli elmetti accesi: uno guida verso l’imbarcazione, l’altro sta in mezzo assicurandosi che tutto sia pronto per il soccorso, un altro – a prua – stabilisce il primo contatto con i migranti.
«Dev’essere un contatto quanto più amichevole, spesso si fa a gesti – anche perché non sempre i migranti conoscono l’inglese o il francese – in più evitiamo di parlare al megafono per stabilire un contatto più rassicurante e immediatamente diverso da quello delle guardie costiere. Spieghiamo come funzioneranno le fasi del salvataggio, che siamo volontari italiani e che li porteremo in Europa.»
Tutto fila liscio, i migranti salgono a turno prima sul rhib, poi sulla nave. Fabio, che ha coordinato il soccorso dal ponte della Mare Jonio, gli dà il benvenuto e nota un dettaglio: «Avevano delle macchie di ruggine sulla pelle.» Un dettaglio apparentemente insignificante, ma che rivela qualcosa di nuovo. «La comparsa delle imbarcazioni di ferro ha caratterizzato i soccorsi dell’ultima missione. Rispetto a quelle tradizionali, cioè in legno, le iron-boat sono molto più pericolose, sia perché hanno una linea di galleggiamento molto bassa – che espone la barca al rischio di rovesciamento – sia perché si arrugginiscono durante le traversate, indebolendo le saldature.»
Ma quelle barche arrugginite rivelano anche altro. «Vengono assemblate principalmente nel porto di Sfax in Tunisia – paese da cui oggi parte il maggior numero di migranti subsahariani – e testimoniano l’apertura di una nuova rotta nel Mediterraneo Centrale.» Questa nuova rotta serve ai migranti per aggirare il golfo di Tripoli ed evitare i violenti respingimenti della guardia costiera libica. Se vista su una mappa ha la forma di una banana, motivo per cui i soccorritori la chiamano “banana route”.
Dopo aver sbarcato i 47 migranti soccorsi a Lampedusa, il 16 ottobre scorso la Mare Jonio ha ripreso il largo effettuando un secondo intervento. «Trovandoci in zona Sar libica, dal centro di coordinamento di Roma ci è stato detto di comunicare attivamente con le autorità libiche per l’assegnazione di un porto di sbarco.» Cosa che tutte le navi della civil fleet rifiutano sistematicamente di fare, «dal momento che, anche il diritto internazionale, non ritiene la Libia un “porto sicuro”, cioè “un luogo in cui i sopravvissuti non si trovano più esposti ad un rischio concreto per la loro vita”.
Non avendo eseguito l’ordine delle autorità italiane, dopo aver portato a Trapani gli altri 69 migranti soccorsi, la nave di Mediterranea è stata fermata per venti giorni e condannata a pagare una multa di 10 mila euro, per effetto del d.l. Piantedosi. Poche settimane fa è ripartita per la sedicesima volta. Da quel 4 ottobre 2018 - la prima notte passata in mare - Mare Jonio ha soccorso 1024 persone.