Scroll Down
Scroll Down
Scroll Down
Dentro una prigione in Libia
La Libia è uno dei paesi più estesi che affacciano sul Mar Mediterraneo, un paese ricco di petrolio e gas, nel nord dell’Africa. Fino al 2011 è stato governata dal generale Mu'ammar Gheddafi, che l’ha resa una delle economie più fiorenti del continente africano. Dopo la sua morte, il paese è stato risucchiato in due guerre civili e si è diviso tra ovest ed est. A ovest, dove si trova la capitale Tripoli, nel 2016 su iniziativa dell’Onu si è formato il governo di Fayez Al Sarraj, rimasto in carica fino al 2021 – quando gli è succeduto l’attuale premier Dbeibbeh – supportato dai principali paesi occidentali. Nell’est del paese, a Tobruch, si è insediato il governo del generale Haftar, sostenuto da paesi arabi come l’Egitto e gli Emirati, ma non riconosciuto dai governi occidentali.
Indipendentemente dal potere riconosciuto ai due governi, «ogni territorio della Libia è controllato, a volte conteso, dalle milizie – spiega Nello Scavo, giornalista di Avvenire finito sotto scorta nel 2019 per le sue inchieste sui trafficanti libici – gruppi armati che esercitano il loro controllo anche sulla guardia costiera e sui centri di detenzione, dove i migranti diretti in Europa vengono imprigionati.»
Non si tratta soltanto di prigioni pubbliche – gestite dal governo libico attraverso il ministero degli interni con l’obiettivo di rallentare i flussi migratori per l’Europa – ma anche di prigioni private, controllate direttamente dalle milizie locali, in cui i migranti vengono tenuti sotto sequestro finché non pagano un riscatto.
Secondo un report pubblicato nel giugno 2022 dagli ispettori ONU inviati in Libia per documentare le condizioni dei migranti, in queste prigioni – presenti tanto nell’est quanto nell’ovest del paese – i migranti «vengono detenuti arbitrariamente e per periodi di tempo prolungati». Un migrante, cioè, non sa né perché ci finisce né per quanto tempo rimarrà carcerato. Per saperlo avrebbe bisogno di un processo, con un’accusa da cui difendersi. Un’accusa che però nessuno potrebbe contestargli perché per la legge libica non sta commettendo nessun reato, dal momento che – e questo è un assoluto paradosso – il codice penale libico non prevede il reato di immigrazione clandestina.
Già nel 2021 gli ispettori dell’ONU avevano definito le violazioni documentate di diritti umani in Libia come “crimini contro l’umanità” , senza che questo abbia però influito sulle scelte di paesi europei come l’Italia che finanziano le autorità libiche con l’incarico di lottare contro l’immigrazione clandestina. Nel report ONU del giugno 2022 gli ispettori incaricati dalla più importante organizzazione di diritto internazionale specificano che nelle prigioni i migranti «vengono sottoposti sistematicamente a omicidi, sparizioni forzate, torture, riduzione in schiavitù, violenza sessuali, stupri e altri atti disumani.»
Marco Salustro è un reporter italiano che ha documentato la traversata dei migranti, filmandola da diverse angolature, comprese quelle più inaccessibili. Come la prigione di Zawiya, dove è riuscito a entrare nel 2014 con la sua telecamera, ricevendo due anni più tardi il prestigioso Rory Peck Award “per aver girato riprese complesse e scioccanti sulla tratta dei migranti”. “Per quanto la prigione di Zawiya rientri tra quelle gestite dal governo libico, in realtà a controllarlo sono le milizie locali, che nelle loro fette di territorio hanno molto più potere effettivo del governo». Marco è riuscito ad accedere al centro di detenzione – e a girare le immagini che vedrete tra poco – dopo aver ricevuto un’autorizzazione da parte del ministero degli interni libico.
Ibrahima Lo, protagonista del nostro viaggio, ha trascorso due settimane in una prigione di Sabha, città assediata dalle milizie, al centro del deserto libico. «I libici si ubriacavano e venivano a colpirci con le teste dei kalashnikov. Volevano convincerci a pagare una specie di riscatto per uscire di prigione. Io non avevo più soldi. Un senegalese che faceva da mediatore per i trafficanti libici mi consigliò di telefonare a un parente o a un amico per farmeli inviare, altrimenti sarebbero cominciate le torture.»
Le testimonianze pubblicate dagli inviati Onu nel 2022 parlano di donne stuprate dai carcerieri libici in cambio di latte fresco per i propri bambini, altre di uomini bruciati con la plastica fusa e filmati per estorcere denaro alle famiglie, altre ancora di ragazzi presi a morsi. «Chiamai di corsa Mouhammed, non lo sentivo da settimane. Lo pregai di trovare quei soldi.» E quei soldi arrivarono, in contanti, in Libia: 150.000 sefa, quasi 260 euro: abbastanza per uscire dalla prigione e proseguire il viaggio. «Viaggiammo per tutto il pomeriggio dentro un furgone senza luce, senza sapere dove ci avrebbero portati. Pensavo a quelli rimasti indietro. Nel deserto. Ai confini. Nella prigione.»
Chi non ha soldi da dare alle milizie per essere liberato non ha molte scelte: può provare a scappare oppure viene venduto come schiavo a un libico. « Ma sbagliavo a pensare che il peggio fosse alle spalle.» Quando scendono dal furgone è l’alba, in una città della Libia che Ibrahima non ricorda. «Mi ricordo che il furgone non poteva andare avanti, così continuammo a piedi per ore, finchè il sole si fece cocente. Eravamo una catena umana che si rompeva in continuazione: alcuni cadevano stremati dai dolori della prigione, altri si fermavano per la sete, altri per la fame, io cominciai a vomitare.»
«Quando arrivammo a Sabrata – città portuale della Libia che si affaccia sul Mediterraneo – era buio. Ci portarono in una grande camerata dentro un edificio costruito in un campo, sul soffitto avevano messo un filo elettrificato da muro a muro e avevano attaccato cocci di bottiglia alle pareti perché nessuno potesse scappare.» Scappare, certo, ma per andare dove? «Io volevo tornare in Senegal – confessa Ibrahima – e quella notte chiesi ai libici se ci fosse un modo per tornare indietro”. Erano passati sei mesi da quando era partito e non era mai stato così vicino all’Europa: Sabrata dista 260 miglia dalle coste della Sicilia, appena una notte di navigazione. «Mi dissero che non era possibile con il calcio di un kalashnikov.»
Nella prigione di Sabrata Ibrahima Lo trascorre quasi un mese, fin quando un giorno una notizia cambia tutto. «Avevamo saputo che vicino al nostro campo c’era una specie di conecsion da cui partivano continuamente i barconi per l’Italia. Quando mi ripresi un po’ insieme a Pape e Modou, due ragazzi senegalesi che avevo conosciuto da poco, provammo a scappare. E ci riuscimmo. Avevamo messo insieme i nostri soldi per corrompere un libico che aveva le chiavi del cancello d’ingresso.»
Lo raggiungono all’una di notte, tutti dormono. Il libico conta i soldi, gira la chiave e apre il cancello. «Bussammo forte alla porta di quella specie di conecsion, ci aprì un uomo di nome Bensame, mi sono subito fidato di lui.» Ma non è abbastanza. “I trafficanti della prigione da cui eravamo scappati arrivarono qualche giorno dopo a riprenderci.» Quella che sta per arrivare sarà una notte che Ibrahima non dimenticherà mai, «la peggiore della mia vita». Dentro una stanza coi neon bianchi si sente un filo elettrificato che fa come una zanzara, un uomo lo impugna e va verso di lui. Ibrahima chiude gli occhi.